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Il rapporto annuale di Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa indica per la prima volta una situazione globale “difficile”. Male l’Italia.
Se gli atti di violenza contro i giornalisti rappresentano l’aspetto più visibile dei casi di violazione della libertà di stampa, esistono numerosi altri indicatori per valutare le condizioni di esercizio della professione nei vari paesi del mondo: dalle pressioni economiche a quelle politiche, passando per le minacce. Tenendo conto di tutti gli elementi, secondo l’ultimo rapporto dell’organizzazione non governativa Reporter senza frontiere (Rsf), a livello globale la situazione, per la prima volta, è diventata “difficile” nel suo complesso.
Il documento si concentra però soprattutto sulla questione finanziaria: “In questa fase assistiamo a passi indietro inquietanti in numerose regioni del mondo – si legge nel report – e il fattore della pressione economica, spesso sottostimato, sta indebolendo profondamente i mezzi d’informazione. Ciò per via delle concentrazioni nelle proprietà, del peso esercitato dagli inserzionisti e dai finanziatori, dell’assenza o delle restrizioni al sostegno pubblico. Sulla base dei dati misurati per stilare la Classifica mondiale della libertà di stampa, siamo costretti a una constatazione: i media oggi sono costretti a scegliere tra la loro indipendenza e la sopravvivenza economica”.
In 160 dei 180 paesi analizzati da Rsf, le testate giornalistiche non riescono a raggiungere una condizione di stabilità finanziaria. E, in particolare, in un terzo delle nazioni si riscontrano regolarmente chiusure: dagli Stati Uniti all’Argentina fino alla Tunisia. Senza sorpresa, la situazione appare disastrosa in Palestina. Per colpa della chiusura della Striscia di Gaza e delle difficoltà a entrare anche in Cisgiordania, esercitare la professione sui territori occupati è complicatissimo. Senza dimenticare che molte redazioni sono state distrutte e che più di 200 giornalisti sono stati uccisi.
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Un’altra nazione nella quale le condizioni di lavoro dei reporter sono estremamente difficili è Haiti, dove l’instabilità politica e le violenze stanno portando anche l’economia dei media in una situazione di caos. In 34 stati le chiusure di mezzi d’informazione sono state poi diffuse e regolari: nell’elenco figurano Nicaragua, Bielorussia, Iran, Birmania, Sudan, Azerbaigian e Afganistan. Ma le problematiche finanziarie si riscontrano anche in paesi più agiati: da quelli europei al Sudafrica, alla Nuova Zelanda.
“La garanzia di uno spazio d’informazione pluralista, libero e indipendente – ha commentato Anne Bocandé, direttrice editoriale di Reporter senza frontiere – implica condizioni finanziarie stabili e trasparenti. Senza indipendenza economica non esiste stampa libera. Quando i media sono resi finanziariamente fragili vengono aspirati dalla corsa all’audience, a scapito della qualità, e possono diventare preda di oligarchi e decisori pubblici a cui conviene strumentalizzarli”.
A pesare sono numerose situazioni locali. Nei primi mesi del secondo mandato di Donald Trump sono stati tagliati i finanziamenti per l’agenzia Usagm (la United States agency for global media), che comprende tra le altre le testate Voice of America e Radio free Europe/Radio Liberty. Inoltre, più sempre negli Stati Uniti (57esimi nella classifica) il 60 per cento degli intervistati da Rsf afferma che è “difficile guadagnarsi di che vivere con il giornalismo”.
Ma a preoccupare l’organizzazione non governativa è anche il dominio dei colossi di internet: Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. Ciò rappresenta una grave minaccia per il pluralismo dell’informazione. Ma non è solo questo il rischio che si corre a traslare l’informazione dai tradizionali strumenti giornalistici verso le piattaforme dei cinque giganti americani: “Le loro piattaforme, ampiamente prive di regolamentazione, captano una quota crescente dei ricavi pubblicitari che normalmente dovrebbero sostenere il giornalismo. Le spese totali in pubblicità sui social network sono stata pari a 247,3 miliardi di dollari nel 2024, in aumento del 14 per cento rispetto al 2023. Inoltre, non accontentandosi di indebolire il modello economico dei mezzi d’informazione, tali piattaforme partecipano anche alla proliferazione di contenuti manipolati o falsi, amplificando il fenomeno della disinformazione”.
Mancanza di stabilità economica, pressioni crescenti da parte di diversi attori, dominio crescente dei colossi che controllano i social network (oltre agli annosi problemi di persecuzioni e intimidazioni): tutto ciò fa sì che i risultati complessivi della classifica di Rsf siano considerati “allarmanti” per via della “globale degradazione della libertà di stampa nel mondo. Il punteggio medio dell’insieme dei paesi valutati passa per la prima volta sotto a quota 55, quella che indica una situazione difficile”. Ai primi posti dominano le nazioni dell’Europa settentrionale, con Norvegia, Estonia, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia, Danimarca e Irlanda. Si tratta dei soli paesi colorati di verde (il che indica un giudizio positivo).
Il Regno Unito è 20esimo, seguito da Canada, Austria e Spagna. La Francia è 25esima, la Slovenia 33esima. L’Italia perde tre posizioni rispetto all’anno precedente, passando dal 46esimo al 49esimo posto: il nostro paese fa peggio di Macedonia del Nord, Repubblica Dominicana, Samoa, Seychelles, Tonga e Belize. E precede di poco Mauritania, Mauritius, Ghana, Panama e Liberia. Un risultato deludente e inquietante.
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